WELCOME VENICE

Regia di Andrea Segre

Con Paolo Pierobon, Roberto Citran, Andrea Pennacchi, Ottavia Piccolo

Drammatico – Italia 2021, durata 100 minuti

SINOSSI


Venezia, isola della Giudecca. Le famiglie di tre fratelli – Alvise (Andrea Pennacchi), Piero (Paolo Pierobon) e Toni (Roberto Citran) – si riuniscono a tavola nella casa dove sono nati. Dove ormai abita solo Piero, ma a cui Toni le è molto legato perché da lì insieme si muovono con un paio di amici per praticare la pesca di moeche, ovvero i granchi di laguna. A seguito di un incidente improvviso, l’abitazione di famiglia assume un valore ancora più cruciale e mette Alvise – che vorrebbe ristrutturarla e metterla a rendita come “dimora di charme” per turisti stranieri – contro Piero, ostinatamente contrario a trasferirsi sulla terraferma.

Il discorso amoroso che, da Io sono Li a Il pianeta in mare, Andrea Segre intrattiene con Venezia e la Laguna, si arricchisce di un nuovo capitolo, mentre si allarga la famiglia dei suoi interpreti.

A Roberto Citran (Io sono LiLa prima neve) e Paolo Pierobon (La prima neveL’ordine delle cose) si affiancano in Welcome Venice alcune graditissime presenze: Andrea Pennacchi (che in La prima neve aveva solo un piccolo ruolo), Ottavia Piccolo, Sandra Toffolatti, Anna Bellato. Tutti interpreti che farebbe piacere vedere molto più spesso nei titoli di testa del nostro cinema.

Dopo Molecole, girato nella città silenziosa, svuotata dalla pandemia, Segre torna a ragionare, usando la chiave del conflitto fraterno, sulla trasformazione della città svuotata, dello smarrimento dei pochi abitanti rimasti. Nel tentativo di catturare le tracce e i fili della sua cultura più autentica, di difenderne la bellezza fragile, nascosta ai più, e registrare l’affermarsi di una mentalità sempre più predatoria e di un turismo invasivo, disinteressato, epidermico.

L’elegia arcaica delle placide ma anche pericolose distese d’acqua (se si nasce in laguna, meglio imparare presto a nuotare) e dei dialoghi anche cinefili tra burberi, irsuti moecanti è agli antipodi della fretta del villeggiante frettoloso, che dopo aver ottemperato all’obbligo del selfie attestatore, invece di esplorare la Serenissima si chiude in un b&b a mangiare pizza e sushi. Un salto quantico, che si consuma tra le parole di “Nina ti te ricordi”, cantata nell’incipit non a caso dal più piccolo degli interpreti – canzone popolare che rievoca pudiche asprezze di una povertà non così antica – agli anglicismi del personaggio di Giorgio (Stefano Scandaletti), imperturbabile finanziatore venuto da fuori, che “vende” l’esperienza turistica parlando di “roots”, radici. Quelle che rendono unici i veneziani rispetto ai cittadini di qualsiasi altra città nel mondo.

Prima che il conflitto tra tensioni contrarie esploda, il film apre a stupefacenti momenti di grazia contemplativa e di humour lagunare: modulazioni di luce sull’acqua, solitudini notturne mal trattenute, cruciali chiacchiere da osteria. Epifanie silenziose, come un’inquadratura che coglie la forma di un occhio sotto l’arco di un ponte, grazie al suo riflesso nell’acqua: forse un invito a fermarsi, scovare la bellezza segreta, lontano dalle luci più intense. A volere di meno e vivere di più.

L’illusione di riscatto sociale attraverso gli schei rapidi stride con l’economia a filiera corta di moeche fritte, registri di piccola vendita scritti a mano, trattative di quartiere. Non un’idealizzazione nostalgica, piuttosto il recupero dei principi elementari di una socialità originaria, sobria, lenta, universale. Gli umani possono svestirsi della loro storia, mutare identità come i granchi perdono il carapace, ma la Natura avrà sempre la meglio su chi va di corsa, suggerisce Segre in un finale crepitante che suona come un campanello d’allarme, un’ultima chiamata all’umanità.

Recensione di Raffaella Giancristoforo (mymovies.it)

NOTE SUL REGISTA:

Regista di film e documentari per cinema e televisione, è anche dottore in ricerca in Sociologia della Comunicazione. Da oltre dieci anni presta particolare attenzione al tema delle migrazioni ed è socio fondatore di Zalab.

Prima di Welcome Venice ha diretto altri tre film lungometraggi: Io sono Li  (vincitore di decine di premi internazionali, tra cui il Premio Lux del Parlamento Europeo), La Prima Neve (vincitore del Festival di Annecy) e L’Ordine delle Cose . Ha realizzato numerosi documentari: Marghera Canale Nord,  A sud di Lampedusa,  La mal’ombraCome un uomo sulla terraMagari le cosa cambiano, Il Sangue Verde, Mare ChiusoIndebitoCome il peso dell’acqua, I Sogni del Lago Salato, Il Pianeta in Mare, Molecole.

Nel 2014 ha pubblicato il libro FuoriRotta (Marsilio) collegato al progetto Furorirotta.org, sviluppato in collaborazione con Montura Editing e Internazionale.

INTERVISTA A ANDREA SEGRE (a cura di Andrea Cerofolini – taxidrivers.it)

Il prologo, quello in cui vediamo uno dei protagonisti navigare lungo il fiume e poi a un certo punto fermarsi quasi smarrito, mi sembra costituisca un incipit che sta dentro e fuori la storia, La sua  è una funzione narrativa, riferendosi a ciò che è successo e che staremo per vedere, ma anche di senso, con il montaggio che ricrea la condizione di conflitto posta al centro della storia. Così il disaccordo tra Pietro e Alvise è preceduto sul piano formale dall’accostamento tra la scena di assoluta solitudine che apre il film, e la seguente, satura di corpi e di supremo gaudio.

Intanto quella scena da un punto di vista strettamente formale è un po’ un falso flashback; potrebbe diventarlo ma in realtà non lo è. É un cerchio che non chiude; dal punto di vista formale è stata pensata cosi.  A me, però, interessa di più il suo significato, perché quella scena introduce il centro dell’anima che volevo raccontare. Cioè, quello di cui stiamo parlando non è solo un conflitto esterno per la gestione di un bene materiale, ma un profondo dissidio interno tra persone governate da un destino più grande di loro e biograficamente inatteso. Perché anche quella famiglia come tante altre viveva in una casa che allora non valeva niente, che puzzava di pesce e da cui tutti speravano di andarsene e che poi, all’improvviso, diventa un bene immobiliare importante, destinato a schiacciare la vita di Piero. Quindi il contrasto tra questo pensiero e la famiglia che festeggia il suo compleanno è sicuramente è il punto di partenza dello scontro.

Continuando a scorrere il film e soffermandoci sulla scena del compleanno, ho scritto che Welcome Venice è uno di quei rari film  in cui si racconta una storia in un cinema che oggi ha paura di raccontarle. In questo senso tu non rinunci al potere demiurgico della settima arte a partire dal significato assunto dai colori. Penso, per esempio, al contrasto tra i toni  giallo oro che scaldano l’ambiente famigliare, e le silhouette dei protagonisti invase dai neri, utilizzati per segnalare la latenza dei loro lati oscuri

Di certo non abbiamo voluto fare la solita Venezia livida e triste, nebbiosa e nera, quella che a volte si utilizza per parlare del rapporto tra Venezia e la morte. Abbiamo voluto stare dentro a luci molto materiche prese dalla vita vera e dense di rapporto  con l’esistenza. Insieme a Matteo Calore siamo andati  in una direzione che contrastava con i colori dei granchi, le cui tonalità si posizionano tra il verde scuro, il nero, il grigio, e il legno usato. E’ stato qualcosa a cui abbiamo tentato di dare attenzione e dunque mi fa piacere che tu l’abbia notato perché è un materia che ha fatto parte della nostra discussione.

Da questo punto di vista Welcome Venice è attraversato dall’importanza del segno grafico che regala al film una forte stilizzazione, a cominciare dalla scena iniziale, dominata da una sorta di natura morta. Mi sembra che in Welcome Venice l’uso del colore vada di pari passo con la scelta di passare al cinema di finzione dopo aver raccontato Venezia e le sue trasformazione attraverso due documentari come Pianeta Mare e Molecole. La stilizzazione che da esso ne deriva ti permette di esprimere un afflato poetico e anche favoloso altrimenti impossibile da raggiungere.

In questa direzione potrei quasi dirti che Pianeta mare e Molecole sono degli appunti per decidere la forma con cui fare Welcome Venice. Nel senso che lo stare a Venezia e raccogliere appunti visivi e narrativi con il lavoro documentaristico è quello che poi mi ha aiutato a formarmi uno sguardo sulla città. Tutto questo l’ho fatto sempre con Matteo Calore, avendo lui curato la fotografia dei documentari, per cui, quando abbiamo iniziato a lavorare su Welcome Venice ci siamo chiesti quale poteva essere la forma più giusta.  La mia proposta di lavorare con lenti anamorfiche e con la camera a mano c’è sembrata la cosa più facile da fare. La scelta formale importante in Welcome Venice è stata quella di non farsi trascinare dalla cartolina veneziana. Venezia mette sempre a disposizione un fascino estetico su cui è necessario lavorare in sottrazione, pur nel rispetto  della sua forza luminosa. 

Il personaggio di Piero  rappresenta una resistenza rispetto a una trasformazione che incide sul tessuto sociale e sulla vita intima delle persone, mettendone in discussione origini e legami. In questo senso la storia di Welcome Venice è quasi metaforica.

Avevamo in testa che Piero doveva essere resistente ma istintivo; inconsapevole e non ideologico. Ci sono tanti miei amici resistenti che sono ideologici nel senso che hanno scelto l’ideale di resistere a Venezia. Lottano, fanno manifestazioni, associazioni, comitati, tutte cose sacrosante a cui partecipo anche volentieri. Io, però non volevo raccontare una figura del genere, ma piuttosto farlo rispetto a una persona che ha paura di perdere senso. Per me la frase più importante di Piero è “ Se mi vago via so perso”. Lui non vuole andare via perché ha paura e avendo una casa dice lasciatemi quaHo capito che non sono bravo a pescare come mio fratello, però se vado da un’altra parte non so cosa fare. Questo è quello che mi piaceva rappresentare. Cioè il fatto che essere sradicati dalla tua casa non per scelta ma per la pressione di un potere economico determinato dalla tua stessa abitazione, è una cosa ingiusta. Mi sembrava di dare voce a chi subisce questo condizionamento diventando un inconsapevole antagonista. Quello che lui fa alla fine, e che non diciamo per non svelare la sorpresa, è un gesto istintivo: è rabbia, è scherzo, è antagonismo istintivo, è dire: “sappi però che io sto male e lo devi saper anche tu e i tuoi turisti″.

D’altra parte, mettendo al centro la casa come simbolo della nostra intimità più profonda e nascosta e raccontando di Alvise che la vuole fare abitare da persone estranee alla famiglia, rinunciando di fatto alle sue radici, allarghi la storia a fenomeni tipici della nostra contemporaneità: penso ai vari formati televisivi che danno in pasto la vita della gente a milioni di spettatori.

Su questo tema di radici e tradizioni c’è una grande ambiguità da cui molti traggono vantaggio. Con la scusa di difendere le tradizioni, spesso si collabora alla museizzazione delle città. Con la scusa di dover salvaguardare la casa del vecchio pescatore si finisce nella contraddizione del patrimonio Unesco; cioè, lo salvi però nel contempo lo svuoti perché lo rendi oggetto di consumo. Il punto non è salvare la tradizione ma salvare la casa e rendere possibile che anche persone non veneziane, e per esempio un africano, possano viverci facendo lo stesso lavoro di Piero. L’importante è che ci sia la possibilità di abitare le radici e le tradizioni anche trasformandole, senza però destinarle a una morte di consumo. Quello è il grande pericolo dell’industria turistica, e cioè  rischiare di schiacciare un luogo a tal punto che le persone non vanno più a vederlo perché non c’è più niente dentro.

Parlavo dell’afflato poetico del film ma anche di un’ immaginario che chiama  in causa il cinema. Di fatto la biografia di Piero e le sue azioni assomigliano a quelle dei protagonisti dei suoi film preferiti. Come Spartacus e Il gladiatore, Piero  è diventato schiavo attraverso gli anni di prigione, ma anche per la paura che gli impedisce di agire, rendendolo subordinato al volere del fratello maggiore interpretato da Carlo Citran. Come quelli, però, riesce a trasformare la sua sconfitta in una vittoria con il colpo do spugna finale che, come detto, non riveleremo per non rovinare la sorpresa agli spettatori.

Sì, esattamente.  In realtà l’autore delle citazioni cinematografiche è Marco Pettenello (sceneggiatore, ndr). Io le condivido molto; le abbiamo scelte insieme e da lì abbiamo deciso di costruire questo spettatore di film in fondo super normale. Se tu pensi a Il Gladiatore, La grande guerra  Spartacus, sono grandi storie che hanno affascinato milioni di spettatori. Quindi possono fare lo stesso effetto anche sul nostro protagonista. Lui è  affascinato da questi eroi sconfitti, che però finiscono per lanciare un messaggio. Questo certamente è il rapporto tra il cinema e Piero.

Welcome Venice è anche un film di grandi interpretazioni. Peraltro abbiamo la possibilità di rivedere sullo schermo Ottavia Piccolo e Carlo Citran, attori che abbiamo imparato ad amare già da tempo. Nel ruolo dei protagonisti svettano Paolo Pierobon e Andrea Pennacchi, i quali, calati nel confronto fratricida risultano del tutto credibili, talmente alta è l’immedesimazione nelle reazioni dei loro caratteri. Come hai ottenuto un tale livello di performance?

Li ho obbligati a trasferirsi con me a Giudecca per tre mesi a respirare l’aria del posto e a fare tante prove tutti insieme. Io ne faccio molte e loro ne sono entusiasti, senza sapere che per me non è un modo  per vedere se sono bravi, ma il percorso necessario per arrivare al personaggio incontrandone tutte le tensioni che stanno tra il loro talento, la loro persona, le loro idee. L’episodio più emblematico è stata la prima prova con Paolo e Andrea. Era la prima volta che lavoravano insieme e  io gli ho chiesto di fare la scena in cui Piero prende per il collo Alvise, mettendolo spalle al muro. Paolo è scattato in avanti, attaccando Andrea alla parete. Quest’ultimo ha detto: allora facciamo sul serio?” e io gli ho detto;  “certo, cosa pensi di essere venuto a fare.” (ride, ndr)