Cineteatro Astrolabio
via G. Mameli, 8
20852 Villasanta MB
Regia di Ferzan Ozpetek
con Luisa Ranieri, Jasmine Trinca, Mara Venier, Geppi Cucciari, Lunetta Savino
Genere Commedia/Drammatico – Italia 2024, durata 135 minuti
Diamanti si apre e chiude con una di quelle tavolate che sono diventate un simbolo del cinema, e del modo di intendere la vita, di Ozpetek. Intorno al desco siedono le attrici del film e lo stesso Ozpetek, intento ad annunciare loro le sue intenzioni e ad assegnare i ruoli. “Ci saranno in tutto quattro uomini”, annuncia, e di fatto i personaggi maschili nel film sono meramente di contorno. “Non c’è niente di quello che ti aspetti”, dice ancora Ozpetek nel film, e invece Diamanti è esattamente quello che ci aspettiamo dal miglior Ozpetek, quello che ama in modo incondizionato le sue donne, e viene da loro ricambiato con fiducia e generosità. Le donne che popolano la sartoria Canova possono litigare, insultarsi e prendersi in giro ma non si pugnalano alle spalle: non sorprende che alla sceneggiatura, oltre al regista, ci siano due mani femminili, Carlotta Corradi ed Elisa Casseri. Questo senso di “sorellanza” è incarnato al sommo grado dalle due protagoniste, legate tanto dall’affetto quanto da ricordi dolorosi che affrontano in modo speculare e contrario: Alberta passandoci sopra come uno schiacciasassi, Gabriella schivandoli accuratamente. Luisa Ranieri e Jasmine Trinca interiorizzano completamente i rispettivi ruoli, acquisendo fisicamente l’una una durezza programmatica, l’altra una negazione di sé che sfiora l’annullamento. Tutto il cast corale è in forma smagliante, e svettano Mara Venier nei panni dimessi di Silvana, Milena Mancini in quelli di Nicoletta e Milena Vukotic nel ruolo della zia Olga. Ma è una gara di bravura e Lunetta Savino, Paola Minaccioni e Geppi Cucciari gestiscono le parentesi comiche alleggerendo una trama che talvolta vira al melò. Vanessa Scalera è come sempre potente nel ruolo di Bianca Vega, che comanda le donne ma si lascia intimidire davanti all’unico uomo (Stefano Accorsi). Ozpetek compare occasionalmente fra le sue attrici, a ricordarci metacinematograficamente che questa è una messinscena polifonica.
Regia di Mitsuhiro Mihara
con Tatsuya Fuji, Kumiko Aso, Kumi Nakamura, Akama Mariko, Joe Hyûga
Genere Commedia/Drammatico – Giappone 2023, durata 115 minuti
L’incipit è quasi folgorante, eppure morbido e mai nemmeno lontanamente aggressivo.
Siamo in una piccola cittadina poco distante da Hiroshima (e la cosa avrà il suo peso), un posto che sembra quasi lo stesso in cui è ambientato Ponyo, però reale. E lì entriamo piano piano in un laboratorio dove un uomo un po’ anziano e una donna più giovane, che scopriremo essere padre e figlia, stanno preparando in silenzio e con grande cura del tofu.
Da un lato questo film di Mitsuhiro Mihara tratta il cinema, cura il cinema, crea il cinema con la stessa attenzione e la stessa delicatezza che questi due protagonisti hanno nei confronti del tofu. Da un altro, la testarda convinzione con cui padre e figlia portano avanti una lavorazione forse antistorica, sicuramente opposta alle dinamiche imperanti del capitale, è qualcosa che va oltre lo specifico di un alimento e che finisce per avere a che fare con il sentimento, e magari anche con l’antropologia. Tofu in Japan – La ricetta segreta del signor Takano guarda a Ozu e pure a Miyazaki, con una spolverata del Kore-eda di Father and son a condire il tutto. Parla di famiglia, di amore, di amicizia; parla del peso della storia giapponese sulla vita delle persone, e di quello di una cultura nella quale dovere, dignità e riservatezza rischiano di creare barriere personali e sentimentali: senza mai calcare la mano, mescolando gli ingredienti narrativi con un’attenzione semplice e meticolosa assieme. Quello di Mihara è un dramma travestito da commedia lieve, che non disdegna incursioni nel comico; come si dice nel film, parlando del tofu realizzato dal protagonista, “ha una buona tessitura, è morbido e un po’ dolce […] e resta una leggera nota di amarezza”.
Buon appetito. E buona visione.
Regia di Uberto Pasolini
con James Norton, Daniel Lamont, Eileen O’Higgins, Valerie O’Connor, Stella McCusker
Genere Drammatico – Gran Bretagna 2020, durata 96 minuti
Presentazione e approfondimento film a cura di Gianbattista Pini
Uberto Pasolini torna dunque sul luogo del trapasso, come in Still Life: non è più l’immediatamente dopo, ma l’immediatamente prima, e la sua penna è ancora la stessa, sottile e precisa, perfettamente inchiostrata, tanto autoriale quanto accessibile, nell’approccio ad un genere, quello del dramma sentimentale, che pochissimi perseguono con tanta frontalità e tale discrezione.
Ancora una volta, il film è in mano ad un interprete eccellente, James Norton, e alla nitidezza delle inquadrature, alla loro temporalità estranea alla frenesia della vita urbana, sgombra da tutto ciò che è disavanzo o orpello cinematografico. Tanto che l’immagine di apertura, con il protagonista che ripulisce con cura una grande vetrata, mondandola da tutto ciò che la offusca, si può leggere come una dichiarazione d’intenti, la ricerca (riuscita) di una verità della relazione padre-figlio che è al centro del racconto, di uno sguardo sul mondo non filtrato, in cui riflettersi per quello che si è, e leggere con trasparenza nelle vite degli altri.
Colpito dalla cronaca vera di questa vicenda, Pasolini l’ha tradotta in immagini tanto semplici quanto eloquenti, che non conoscono la durezza del cinema dei Dardenne ma piuttosto una commovente sospensione e una malinconia, sottolineata dalla colonna sonora, che il regista non rifugge ma abbraccia, senza sentimentalismo. Sono le immagini mute di un adolescente con lo zaino in spalla che si allontana nello specchietto retrovisore, della candelina di compleanno in più che Micheal mette nella mano di John, della casa degli specchi del lunapark che restituisce le loro figure deformate, con Michael alto alto e John più piccolo, per sempre troppo giovane. Piccole grandi idee di scrittura visiva che trascendono il realismo senza negarlo e mettono in poesia la crudeltà dell’esistenza.