Cineteatro Astrolabio
via G. Mameli, 8
20852 Villasanta MB
Regia di Sergei M. Eisenstein
con Alexander Antonov, Vladimir Barsky, Grigori Aleksandrov, Aleksandr Levshin, Andrei Fajt
Genere Storico/Drammatico – Unione Sovietica 1925, durata 68 minuti
La corazzata Potëmkin ha subito tali abusi, manomissioni e interdizioni che la qualifica di film ‘maledetto’ appare legittimamente giustificata. Nella primavera del 1928 i diritti del film risultano venduti in trentotto paesi ma in quattro di questi – Francia, Regno Unito, Italia e Giappone – il film fu proibito dalla censura per un quarto di secolo, in altri quattro – Stati Uniti, Olanda, Finlandia e Svezia – fu distribuito in versioni purgate e in tutti gli altri subì tagli e modifiche arbitrarie.
Ad allarmare gli organi di censura sono proprio le eccezionali qualità che entusiasmarono subito il pubblico, i critici, i cineasti (Chaplin, Lubitsch, etc.), gli artisti (Majakovskij): la forza dirompente e l’originalità del montaggio, la bellezza e l’energia plastica delle immagini che raccontano una storia di rivolta, prodromo della rivoluzione bolscevica. Come vedremo, La corazzata Potëmkin fu subito inquadrato come un film di propaganda comunista diabolicamente efficace e che quindi doveva essere vietato alla visione o accuratamente disinnescato e reso inoffensivo.
Dopo essere stato proibito dal regime fascista, nel 1945 La corazzata Potëmkin finalmente ha una prima proiezione italiana al cinema Alcione di Milano nell’ambito del festival del Cinquantenario del cinematografo. Pietro Bianchi lo definisce “un dono postumo fattoci dal Minculpop che ce lo aveva proibito per vent’anni” (“Candido”, 23 marzo 1946). Ma non poteva prevedere il ‘dono’ della censura democristiana: anche se due copie in formato ridotto continuarono a essere diffuse nei cineclub, nelle case del popolo e nei circoli del cinema, la censura DC continuò a impedirne la proiezione fino alla prima vera del 1960, quando il film uscì regolarmente in Italia..
Regia di Juan Jesús García Galocha, Pedro Solís García
Genere Animazione – Spagna 2024, durata 93 minuti
Ogni tanto immergersi in un film di animazione che sia veramente per tutta la famiglia è rigenerante. Perché ormai sembrerebbe appartenere a una legge non scritta il fatto che questa tipologia debba essere divisa in due modalità di narrazione. Una sembra rivolgersi ai piccoli ma si avvale di un’ampia serie di ammiccamenti e di riferimenti ‘alti’ che solo gli adulti accompagnatori possono comprendere e apprezzare. L’altra è decisamente infantile e, spesso anche se fortunatamente non sempre, ricca di stereotipi narrativi.
Più difficile è invece trovare film come Buffalo Kids decisamente godibili e comprensibili per le più diverse fasce d’età. Partendo per di più da riferimenti appartenenti alla realtà come ci avvertono una didascalia all’inizio e una commovente dedica alla fine.
Il legame tra fratello e sorella (una rossa dinamica e peperina) è forte e solidale e lo diviene ancora di più nei confronti del nuovo amico Nick che non può parlare e ha problemi di mobilità che lo costringono su una sedia a rotelle. Insieme condivideranno le avventure di un lungo viaggio.
Le quali li vedranno confrontarsi con un ‘cattivo’ alla Lee Van Cleef contornato dai suoi scagnozzi ma anche accolti come graditi ospiti da una tribù di indiani Cheyenne in cui spicca una ragazzina che inizia a far battere il cuore di Tom. Anche in questo film ci sono le citazioni (la più evidente è quella dell’inseguimento sui carrelli di una miniera in stile Indiana Jones) ma ciò che davvero conta sono i rapporti tra i personaggi. Si parla, senza retorica, di inclusione (Nick non sarà soltanto accudito da Mary e Tom ma contribuirà al buon esito dell’avventura), si presentano gli indiani d’America con il loro stile di vita che non gli impedisce di essere accoglienti e di intervenire, quando è necessario, a fianco dell’esercito.
Il tutto in un mix di ironia e di divertimento, a cui contribuiscono anche flatulenze risolutive, immergendo la vicenda in paesaggi che hanno la giusta ampiezza ed avvalendosi anche della presenza di un simpatico cagnolino. Cioè una rivisitazione del genere western brillante e attenta a lasciare qualche riflessione senza mai essere didascalica.
Regia di James Mangold
con Timothée Chalamet, Edward Norton, Elle Fanning, Monica Barbaro, Boyd Holbrook
Genere Biografic/Drammatico/Musicale – USA 2024, durata 141 minuti
Risolvere l’enigma Bob Dylan, tra verità e menzogna, mito e idolatria, rimane chiaramente un’impresa impossibile. Allora meglio accettare la vulgata dylaniana per come è e lavorare sulla percezione di Dylan, quella del pubblico dei primi Anni Sessanta e di noi spettatori del terzo millennio. In questo senso l’operazione di Mangold è coraggiosa: seppur non radicale quanto il trattamento di Todd Haynes in Io non sono qui – che scomponeva Dylan in personaggi multipli, interpretati da attori differenti tra loro per età o etnia di appartenenza – è quantomeno abbastanza accorta da evitare l’approccio più tradizionale alla materia biografica.
Qui il peso è tutto sulle spalle di Timothée Chalamet e il focus è solo su un preciso periodo della carriera di Dylan, quello dell’ambizioso folksinger venuto dal nulla, con una valigia piena di canzoni e idee sconvolgenti. Distaccato, arrogante e imperscrutabile, il Dylan di Chalamet è un ragazzetto bizzoso, impossibile da associare logicamente all’autore di “Masters of War” o “Like a Rolling Stone”, proprio come Dylan stesso, da sempre impegnato a nascondere la sua identità nelle composizioni. Come i fan ben conoscono, e come lui stesso ha implicitamente confermato, Dylan è le sue canzoni, nelle quali interpreta il pensiero (contro)corrente della protesta o si allontana da essa per sfuggire al conformismo dell’anticonformismo e dimostrarsi sempre un passo avanti rispetto agli altri.
Di qui la scelta di Mangold, anomala per il biopic musicale classico, di privilegiare, quasi fosse un musical, l’elemento sonoro rispetto alla storia, con Chalamet che reinterpreta molti brani del repertorio dylaniano. Il lato più strettamente biografico di A Complete Unknown risulta, di conseguenza, sacrificato in termini temporali e obbligato a semplificare all’eccesso e a introdurre qualche forzatura – ad esempio cortocircuitando l’epilogo a Newport con la presenza di Johnny Cash.
Edward Norton è straordinario nei panni di Pete Seeger, il mentore disilluso, che si rende conto da subito che Dylan lo tradirà come Giuda e che lo surclasserà quanto a talento, ma non può fare a meno di credere in lui; meno approfondite le caratterizzazioni dei personaggi femminili, con Monica Barbaro mirabile nelle performance vocali sullo stile di Joan Baez, ma non altrettanto convincente nelle scene dialogate con Dylan/Chalamet. Difetti e forzature forse inevitabili in un’operazione a così alto grado di rischio, ma in definitiva il totale di A Complete Unknown è superiore alla somma delle sue molte parti.
Regia di Gabriele Salvatores
con Pierfrancesco Favino, Dea Lanzaro, Antonio Guerra, Omar Benson Miller
Genere Drammatico – Italia 2024, durata 124 minuti
Salvatores sceglie apertamente un tono fiabesco, attingendo anche alla letteratura “per ragazzi”, da Dickens a Stevenson a Salgari, nonché partendo da un soggetto mai realizzato di Federico Fellini e Tullio Pinelli e trasformandolo personalmente in sceneggiatura. La storia però pare adatta soprattutto al palato statunitense, poiché Napoli-New York ribadisce tutti gli archetipi (e talvolta gli stereotipi) sia sull’Italia che sull’America di fine anni ’40 più graditi al pubblico d’oltreoceano.
Tutto ciò che è raccontato in Napoli-New York potrebbe avere un’angolazione più originale, ma Salvatores perde l’occasione di lasciare più spesso una zampata irriverente come l’unica che chiude il film, e che ci fa desiderare che Napoli-New York avesse come trama il concetto, ben enucleato dalla canzone finale, secondo cui “nu guaglione nun se vende ‘a dignità”, e avrebbe potuto raccontare con più “cazzimma” la storia di un Lucignolo nella Terra delle opportunità, dotato di quel tanto di insolenza e refrattarietà alle regole del Nuovo Mondo che avrebbe funzionato da granello nel perfetto ingranaggio dell’American Dream.
Ci sono comunque molte cose buone in Napoli-New York: la regia sicura e competente di Salvatores, la sua abilità nel dirigere i giovanissimi (bravi e intensi Dea Lanzaro e Antonio Guerra), l’estrema cura formale, i colori del sogno americano, il montaggio secco di Julien Panzarasa, la fotografia vintage di Diego Indraccolo (new entry nella squadra Salvatores), e una colonna sonora di brani utilizzati come supporto narrativo che mette insieme Jimmy Durante e la Nuova compagnia di canto popolare. Ottimi, secondo il registro della favola, l’interpretazione di Pierfrancesco Favino e lo strepitoso cammeo di Antonio Catania nei panni del direttore di un quotidiano per la comunità italiana a New York. Ma si sente molto anche una compiacenza che Fellini avrebbe evitato, una strizzatina d’occhio a C’era una volta in America) e un’altra ai movimenti femministi (inserendo un accenno di violenza domestica per giustificare una vendetta personale), un omaggio a Titanic e un altro a West Side Story (via Tom Waits). Da Gabriele Salvatores ci aspettavamo, anche in un “racconto di Natale”, la capacità di innovazione e l’anticonformismo mostrati, ad esempio, ne Il ragazzo invisibile e in Io non ho paura, per citare altri suoi film con giovanissimi protagonisti.
Regia di David Lynch
con Anthony Hopkins, John Hurt, Anne Bancroft, John Gielgud, Wendy Hiller, Freddie Jones
Genere Drammatico – Gran Bretagna 1980, durata 125 minuti.
Giudicare a distanza di decenni The Elephant Man significa inevitabilmente provare a contestualizzarlo all’interno della carriera del regista di Twin Peaks e scoprire in esso i prodromi di un percorso tra i più singolari e imitati del cinema contemporaneo.
Lynch racchiude la sua natura più evidentemente eccentrica nella cornice: un prologo e un epilogo onirici, che rimandano alla ricerca di una giustificazione cosmica del mistero naturale che contraddistingue il protagonista. Ma se il resto dello svolgimento narrativo è all’apparenza più classico e convenzionale – come Lynch sarà nuovamente solo in Una storia vera – i temi cari all’universo del regista di Missoula sono già fortemente presenti. Come la fiera difesa della diversità e la visione estremamente negativa sulla natura umana, ritratta nella sua ferina empietà; o la riflessione sul destino imperscrutabile e sull’importanza dell’apparenza, in una società che trova nel pregiudizio un passe-partout interpretativo elementare ma efficace.
The Elephant Man tocca punte di rara crudeltà nel ritrarre gli evidenti limiti etici della società dell’uomo. Il ritratto che si delinea è doloroso e quasi insostenibile per lo spettatore, almeno quanto lo era la visione del volto di Merrick (protagonista del film) per le menti semplici del popolo londinese: per paura o ignoranza, infatti, l’uomo sembra basare le proprie concezioni su un’idea canonizzata di bellezza (o bruttezza), tale che la visione di un caso estremo diviene inevitabile polo di attrazione o repulsione, di fronte al quale tutto si può essere tranne che indifferenti.
Merrick, che si dice “felice a ogni ora del giorno, perché sa di essere amato”, è un disturbante recettore del nostro senso di colpa di uomini, che raccoglie e riflette, al pari di quello specchio che non riesce a osservare. Sia che inorridisca guardandolo o che scelga di osservarlo, sfidando l’istinto iniziale pur di sentirsi moralmente migliore e appagare il proprio ego, l’individuo lascia comunque Merrick fuori dall’equazione, sigillandolo inesorabilmente come freak.
Il film si aggiudicherà otto nomination all’Oscar, senza clamorosamente vincerne neanche uno. Lynch non diventerà mai un regista caro ai membri dell’Academy ma qualcosa di assai migliore, mutando per sempre la storia del cinema.