Cineteatro Astrolabio
via G. Mameli, 8
20852 Villasanta MB
Regia di Alex Garland
con Nick Offerman, Kirsten Dunst, Wagner Moura, Jefferson White, Nelson Lee
Genere Distopico/Drammatico – USA 2024, durata 109 minuti
In una New York a corto di acqua e dove la guerra è arrivata in forma di terrorismo, con attentati kamikaze, il giornalista Joel e la fotografa Lee hanno deciso che è rimasta una sola storia da raccontare: intervistare il Presidente degli Stati Uniti, da tempo trinceratosi a Washington mentre dilaga una feroce Guerra Civile. Partono così per un viaggio verso la capitale, cui si aggregano l’anziano e claudicante giornalista Sammy e la giovane fotografa Jessie, che vede in Lee un modello da seguire. Contro quel che resta del governo si muovono le truppe congiunte Occidentali di Texas e California, ma la regione che i giornalisti attraverseranno nel loro viaggio non è fatta di battaglie campali tra schieramenti ed è invece preda di un caos di microconflitti e atrocità.
Il film più provocatorio dell’anno, e il più costoso mai prodotto da A24, non offre spiegazioni bensì scuote dispiegando un violentissimo conflitto, ambientato in America ma rivolto più in generale al degrado della Democrazia. Il regista Alex Garland ha infatti dichiarato che se negli Stati Uniti certe cose sono esacerbate, per esempio dall’onnipresenza delle armi da fuoco, ci sono guerre civili che sono state combattute a colpi di machete e hanno comunque fatto decine di migliaia di morti. Garland dice che avrebbe potuto ambientare il film pure nella sua Inghilterra o in qualsiasi altra democrazia, perché alla vera origine di questa Civil War c’è la demonizzazione dell’avversario politico, l’assunzione di entrambe le parti di una posizione di presunta superiorità etica che squalifica la parte avversa e impedisce ogni confronto, allargando sempre più le divisioni.
Anche per questo i suoi protagonisti hanno il solo punto di vista lucido e costruttivo: la neutralità. Imparziali fino all’estremo, si ribellano allo stato delle cose documentandolo senza sconti, anche negli orrori più truci. Drogati di adrenalina o anestetizzati alle emozioni dalle brutalità cui hanno assistito, attraversano un’America insidiosa e a tratti surreale, dove borghi tranquilli sono protetti da cecchini sui tetti e dove militari scavano fosse comuni.
Garland inizia il film in medias res, senza cartelli esplicativi né dialoghi riassuntivi per il beneficio degli spettatori: ai protagonisti è chiaro quali sono le parti in campo e tanto gli basta. Questo radicale rifiuto di didascalismi si traduce in una straordinaria densità: gli eventi si susseguono rapidi, numerosi e sempre più violenti, fino a un assalto finale a Washington tanto spaventoso quanto teso ed efficace dal punto di vista spettacolare. Il crescendo di morte e distruzione appare ineluttabile e troverà una secca e amarissima conclusione, tutt’altro che rassicurante. L’assenza di spiegazioni impedisce del resto di disinnescare questo incubo con la logica e anche quel poco che ci viene detto basta del resto a scombinare i nostri preconcetti. La California liberal e il Texas conservatore sono qui alleati, contro un Presidente “fascista” che ha mantenuto il potere per un terzo mandato, ha sciolto l’FBI e ha approvato bombardamenti con droni sul suolo americano. L’odio verso di lui unisce così Stati anche tradizionalmente avversi, in un caotico precipitare degli eventi che evita di essere una banale e strumentalizzabile rappresentazione delle divisioni dell’America oggi.
Spesso è persino impossibile dire chi stia da una parte e chi dall’altra e i protagonisti del resto non lo chiedono quasi mai e quando lo fanno non ricevono risposte, oppure vengono coperte dalla musica, come quando Joel chiacchiera e ride con i sopravvissuti a una sparatoria, mentre Jessie fotografa un’esecuzione. Il loro obiettivo è fare l’ultimo scoop o lo scatto definitivo, quello che rimarrà nella memoria collettiva, il loro operare è un misto di necessario cinismo e folle coraggio, di cui Garland non nasconde i paradossi.
Anzi gli inserti fotografici sono la principale marca stilistica del film, dove il flusso frenetico dell’azione è spesso spezzato da immagini statiche, a volte in bianco e nero, di uno o due secondi di durata e senza audio che non sia il suono di uno scatto di macchina fotografica. I suoi giornalisti, con la loro facciata di neutralità – che si infrange però a volte in grida mute e disperate – sono l’unica risposta possibile alla fine della democrazia, sono i testimoni che ci ammoniscono riguardo il baratro a cui ci avviciniamo. È attraverso di loro che Garland firma un’opera dal taglio documentaristico, specchio di un mondo distorto ma in cui è fin troppo facile riconoscere il presente.
Regia di Pablo D’Ambrosi, Giulia Innocenzi
Genere Documentario – Italia 2024, durata 90 minuti
Polesine, Italia: un allevamento intensivo di polli, per rispettare le indicazioni del produttore, deve consegnare soltanto degli esemplari perfetti da poter immettere sul mercato, e gli “scarti” vengono eliminati con pratiche violente. Regione di Berlino, Germania: un allevamento intensivo di mucche, visto l’affollamento dei capi e la scarsa pulizia degli ambienti, viene colpito dal proliferare della mastite (un’infezione e infiammazione della ghiandola mammaria), così il personale non medico somministra antibiotici agli animali malati. Murcia, Spagna: un allevamento intensivo di maiali sfrutta le poche risorse idriche del territorio e scarica in vasconi all’aperto i liquami di risulta, causando inquinamento del suolo e contaminazione della falda acquifera. Tutto vero, disturbante e inquietante. Solo che per alcuni politici, organi di controllo e istituzioni gli allevamenti intensivi non esistono…
Forse c’è un unico tema che può unire sensibilità etiche, preoccupazioni sanitarie e criticità ambientali nella riflessione sul sistema socio-economico-valoriale del capitalismo come principale causa del riscaldamento globale – il cibo. Quello che mangiamo, o meglio, ciò che decidiamo di mangiare, ha un impatto razionale, misurabile, diretto con inquinamento, sfruttamento, salute, diseguaglianze. Dobbiamo produrre di più perché dobbiamo mangiare più carne, e per farlo dobbiamo sfruttare più suolo, contaminare più acqua, appestare più aria, somministrare più antibiotici, stipare più animali, violare più diritti. Ma davvero dobbiamo?
Food for Profit non solo mette la camera – nascosta e non – al centro di tutto questo, costringendo in qualche modo a guardare (che tu sia spettatore inconsapevole, attivista convinto, politico coinvolto), ma alla fine dei suoi ’90 minuti fa una anche una precisa call for action: “Stop sussidi pubblici agli allevamenti intensivi”. Ecco, se c’è un pregio indiscutibile del documentario diretto da Giulia Innocenzi e Pablo D’Ambrosi è proprio il suo posizionamento, che si profila inizialmente come lavoro d’inchiesta sulla gestione degli allevamenti intensivi, diventa poi atto d’accusa nei confronti delle istituzioni europee complici in modo diretto e indiretto di questo sistema, e infine mette insieme queste due prospettive per trasmutarsi in un prodotto affilato da brandire per catalizzare la consapevolezza dei cittadini. Senza tirare mai il fiato e mettersi da parte.
Innocenzi d’altronde c’è sempre andata dritta nelle cose, vuoi per la sua appartenenza all’albero genealogico-scolastico dell’ariete Michele Santoro su Annozero e Servizio Pubblico, vuoi per la sua vicinanza ideale e lavorativa con il giornalismo impegnato e d’assalto di Report e Le iene, così in questo progetto che spinge ancora più avanti sue precedenti inchieste tv come Che porci! e I monatti (sull’allevamento grattacielo di 26 piani a Ezhou, Cina) ibridandole con l’occhio e l’afflato del documentario cinematografico, si piazza davanti allo schermo facendo funzione di voce narrante, corpo investigativo e coscienza attivista, in una triangolazione che riassume un po’ tutta la sua carriera quanto la stessa intima natura di Food for Profit. Cinque anni di lavoro, inchieste negli allevamenti coordinate dalla LAV – Lega Anti Vivisezione, produzione indipendente appoggiata da nomi quali Davide Parenti, Sebastiano Cossia Castiglioni, VICE Italia e la rete globale di attivisti Avaaz, il documentario si muove tra l’infinitamente basso delle stalle del Vecchio Continente e l’infinitamente alto degli uffici di Bruxelles, il letame degli allevamenti intensivi finanziati con i soldi dei cittadini e l’odore dei conflitti d’interesse dei parlamentari europei. Il bersaglio grosso è la nuova PAC, la Politica Agricola Comune dell’UE, che per il 2023-2027 ha a disposizione ben 387 miliardi, con la sua incapacità di riconoscere la differenza tra allevamenti intensivi ed estensivi e tutto quello che ne comporta.
Polesine, regione di Berlino e Murcia, dicevamo. Ma anche l’ammoniaca prodotta dagli allevamenti di polli che frantuma e disperde la comunità di Zuromin in Polonia, o lo sfruttamento a nero e in condizioni di sicurezza inesistenti dei lavoratori immigrati in Germania e Italia. Sono immagini compromesse quelle di Food for Profit, cariche di una loro connaturata identità emotiva quando mostrano le condizioni e i maltrattamenti a cui sono sottoposti gli animali, e che assumono una dimensione beffarda negli incontri che il lobbista sotto copertura del documentario Lorenzo Mineo ha con i parlamentari Paolo De Castro e Clara Aguilera per sottoporre loro progetti di editing genetico come maiali a sei zampe e mucche con due organi sessuali. E se tutto è in nome del profitto, gli interventi del filosofo Peter Singer, dello scrittore Jonathan Safran Foer e del divulgatore scientifico David Quammen ci riportano al vero sistema di quel profitto, il capitalismo.